Dopo il talk svoltosi a Host 2025, durante il quale Fipe ha diffuso alcuni dati sulle chiusure nel comparto della ristorazione, il dibattito si è acceso. Molti hanno rilanciato numeri parziali, spesso senza un reale approfondimento. Ma chi, come Fabio Verona, vive questo settore da quasi trent’anni, offre una lettura più ampia e concreta partendo da un caso emblematico: Torino.
Nel 1996, nella città e provincia di Torino, si contavano poco meno di 9.000 pubblici esercizi attivi, a fronte di circa 2,3 milioni di abitanti. Un locale ogni 261 persone: erano gli anni d’oro della ristorazione, quando aprire un bar significava entrare in una comunità viva e prospera.
Poi, nel 1998, arrivò la riforma Bersani, che eliminò i vincoli di distanza e il numero chiuso delle licenze. Da quel momento, aprire un locale diventò un diritto d’impresa e non più un traguardo riservato a pochi. Tra il 1999 e il 2003, i pubblici esercizi crebbero dell’11,5%, segnando un’espansione senza precedenti.
Nel 2006 la Camera di Commercio di Torino ne censiva 10.485, cifra che sembrava enorme allora. Oggi, nel 2024, il numero ha superato 12.000 attività, mentre la popolazione è scesa a 2,2 milioni di abitanti.
Il risultato? Meno persone, più locali. Una fotografia che racconta non solo Torino, ma l’Italia intera: un bar ogni 132 abitanti in città, contro una media europea di uno ogni 200–250.
Il bar, un tempo cuore pulsante dei quartieri, oggi vive una crisi di identità. È un business frammentato, stretto tra la moltiplicazione dell’offerta e la trasformazione dei consumi.
Da un lato, pasticcerie, panetterie, tabaccherie, librerie e negozi possono servire un espresso grazie alla liberalizzazione della somministrazione “non assistita”. Dall’altro, cresce il consumo domestico, con macchine superautomatiche e capsule che offrono il “caffè perfetto” a casa.
Secondo i dati Fipe, il consumo di caffè al bar è calato del 20% rispetto al 2019, mentre il monoporzionato cresce a doppia cifra ogni anno. Una corsa alla sopravvivenza per locali che si dividono un mercato sempre più affollato.
Il biennio 2020–2021 ha lasciato ferite profonde: oltre 700 locali chiusi nella sola provincia di Torino nel primo semestre del 2020. Molti non hanno più riaperto.
Eppure, il numero totale dei pubblici esercizi non è crollato. Altri hanno preso il posto dei precedenti, spesso con modelli più piccoli, agili e “ibridi”. Una sostituzione più che una crescita, che rivela un mercato saturo e fragile.
Anche le torrefazioni, un tempo pronte a sostenere i bar con attrezzature e contributi, oggi si trovano in difficoltà. Il costo del caffè crudo è aumentato del 300%, mentre i consumi si sono ridotti.
In questo scenario, la disaffezione dei clienti all’espresso tradizionale è comprensibile: qualità altalenante, prezzi in crescita e un’esperienza spesso poco distintiva.
"Torino e la sua provincia – osserva Verona – sono oggi un laboratorio perfetto per capire la parabola dell’Horeca italiana: più libertà d’impresa, ma anche più fragilità; più offerta, ma meno domanda; più locali, ma meno persone. In 28 anni, il caffè è diventato più democratico, ma anche più banale. Oggi non basta più alzare la serranda: servono identità, visione e valore aggiunto. Proprio da questa riflessione nasce COFFEE RELOAD, la giornata dedicata al caffè di qualità che si terrà a Torino il 29 novembre presso il Mercato Centrale. Un appuntamento per tornare a parlare di caffè come cultura, esperienza e valore. Perché, conclude Verona, «in Italia il caffè buono esiste ancora: bisogna solo saperlo riconoscere".


Claudio Porchia



