All'Università di Roma tre il prossimo martedì 26 aprile, l'executive chef Raffaele Lenzi del ristorante Al Lago de Il Sereno, terrà un seminario dal titolo " Creatività e ricerca, la testimonianza di un interprete della cucina contemporanea ". Con gli studenti, lo chef, che opera nel 5 stelle lusso sul lago di Como, parlerà di come avvicinarsi a questa professione, fatta di passioni e di sogni, e dell'importanza del confronto con gli altri; dei viaggi propedeutici per la costruzione di una carta che abbia al suo interno i sapori delle varie culture del mondo e dell'importanza di conoscere le lingue, metodo fondamentale per istituire una relazione positiva con l'ospite.
“Sono nato a Napoli negli anni 80, in una famiglia semplice. A 14 anni ho cominciato a lavorare nella pasticceria di mio zio, mentre già studiavo all'alberghiero, passaggio fondamentale per chi tutt'oggi vuole intraprendere la carriera come chef. A me, personalmente, ha dato tanto e quando l'ho concluso, all'età di 19 anni, ho cominciato a viaggiare, mettendo da parte il calcio e il teatro - i miei grandi amori - per concentrarmi sulla cucina”.
Con queste parole, che raccontano brevemente gli inizi della sua carriera, lo chef Lenzi definisce la sua cucina come assimilabile a un'idea di "anarchia dittatoriale" nelle forme creative e curiose dei suoi piatti. Noi di TravelEat lo abbiamo intervistato per offrire ai lettori non solo la sua esperienza, ma anche un’analisi personale della problematica che affligge da molto tempo il settore della ristorazione.
Leggendo la sua biografia, è chiaro come, sin da giovanissimo, abbia messo in campo una grande passione e uno studio diligente. Perché, secondo lei, attualmente, mancano questi aspetti nei giovani che vogliono iniziare questo mestiere?
“Faccio una premessa: ho cominciato giovanissimo ed è stato il caso che poi mi ha portato a intraprendere questo mestiere con serietà. Qualsiasi mestiere avessi scelto, comunque, avrei usato la stessa attenzione e la stessa cura che riservo a questo, perché vengo da una famiglia che mi ha cresciuto così. Per quanto riguarda le nuove leve, non voglio dare solo la colpa ai social, ma sicuramente hanno avuto un peso: per alcuni mestieri sono stati utili, per altri, come il mio, sono stati fuorvianti. E mi riferisco ai mestieri che hanno a che fare con una artigianalità. A questo aspetto si aggiunge che ci sono genitori – forse anche io lo farò con i miei figli? – che dicono ai figli “non vale la pena fare tutti questi sacrifici”. A differenza di mio padre che dice: “Devi fare sacrifici perché nessuno ti regala niente”. Quindi direi che c’è stato un cambio di visione totale”.
Qual è il metodo che ritiene opportuno attuare per far capire ai ragazzi che questo è un mestiere faticoso, certo, ma denso di soddisfazioni per il presente e per il futuro?
“Ti deve piacere stare in cucina. Se ti piace levigare il legno devi fare il falegname, se ti piace stare in cucina devi fare lo chef. E così è per ogni mestiere. Ma se pensi che quello sia il mezzo per diventare famoso, non va bene, è sbagliato. Negli anni Ottanta tutti volevano fare gli attori e i ballerini: in molti, poi, si sono accorti che non era così semplice, che bisogna studiare e fare sacrifici e che non è sempre così bello. Se non ti piace quello che fai, tutto diventa molto più complesso. E non è detto che, nonostante l’impegno, arrivi la notorietà. Per me, per esempio, è uguale, sono sereno lo stesso. Molti colleghi non ci dormono la notte”.
Qual è l'aspetto, in un immaginario colloquio con una risorsa che deve assumere nella sua brigata, davanti al quale si sofferma maggiormente e per il quale decide di investire tempo e denaro nella sua crescita?
“Quando ti confronti con un ragazzo dai 25 in poi c’è un mood. Quando ti confronti con un ragazzo di 17 e 18 anni ce n’è un altro. Io mi focalizzo soprattutto sulle attitudini e sulla volontà reale. Il curriculum non lo prendo in considerazione e, oltretutto, di curricula validi ce ne sono davvero pochi. Se mi soffermassi sul curriculum non avrei personale. Quando scelgo qualcuno, anche se non conosco alla perfezione quella persona, do fiducia: do la possibilità a chiunque di mostrare ciò che è capace di fare. Se poi vedo che quella persona non è in grado di assolvere al compito assegnato, ammetto di aver sbagliato e apporto dei cambiamenti. Diciamo che nella scelta mi comporto un po’ da psicologo: è meglio prendere qualcuno che impari e migliori nel corso della stagione, ma che abbia un buon carattere, piuttosto di una persona preparatissima ma con un carattere inappropriato per un lavoro di squadra. Ho sempre voluto una “anarchia dittatoriale” in cucina: ognuno può fare ciò che vuole, ma quando do indicazioni, tutti mi devono ascoltare. Una cosa che non sopporto sono le negligenze. Se ho qualcuno in cucina con poca esperienza, io sono pronto a imboccarlo con il cucchiaino, ma se invece vedo distrazione non transigo. Il mio mantra è ordine e organizzazione! Una cosa importante, comunque, è avere sempre tanti piani alternativi: non posso assumere personale senza già avere l’eventuale disponibilità di altri per gli stessi ruoli, perché qualora nella pratica quella persona fallisca, si dimostri non adeguata o vada via per qualsiasi motivo, io devo essere sicuro di avere una immediata copertura e avere una squadra sempre al completo”.
Per trovare equilibrio tra la proposta del datore di lavoro e la risposta del lavoratore, quale sarebbe il suo suggerimento, per evitare narrazioni sbagliate sulla questione, intorno al problema di reperimento del personale e dichiarare effettivamente i nodi da risolvere?
“Sicuramente ci vuole comprensione da parte di entrambi, sia del datore di lavoro che del lavoratore. Quando stai a capo di una cucina non sei solo a capo di qualcosa che si realizza grazie solo alle tue mani, ma sei a capo di qualcosa che accade anche grazie all’impegno economico dell’azienda e al suo piano finanziario. Se hai una holding con “n” numero di cose, se una ti serve come fiore all’occhiello per altre, devi capire fino a che punto ti puoi spingere. È un gioco di equilibri tra obiettivi da raggiungere, capacità del personale in cucina e in sala e disponibilità economiche. Credo, comunque, che dobbiamo - e parlo al plurale per non sembrare presuntuoso - assumerci delle responsabilità. Non è solo colpa dei giovani se non ci sono giovani preparati. È anche colpa nostra, perché non dedichiamo il tempo dovuto alla loro formazione. Se i ragazzi non sono capaci di fare una omelette, tu o i tuoi responsabili devono insegnarglielo. Ammetto di essere molto preoccupato perché gestisco due alberghi e una villa e, se mi arriva qualcuno che non sa tagliare il pane in due fette uguali per fare un hamburger è grave. Per comporre la mia attuale brigata, mi sono affidato anche a LinkedIn. Dei 100 ragazzi che ho colloquiato, ne ho selezionati tre. Alcuni avevano impegni con altre realtà e quindi hanno rinunciato. Se da un lato sono stato felice per loro, dall'altro lato non lo sono stato affatto. Solo per fare un esempio, ho contattato un ragazzo di 22 anni che lavorava per un ristorante stellato, il quale mi ha detto che voleva rimanere lì dove si trovava, avendo dato la parola lì. Dopo un mese, ho scoperto che si trasferiva in un ristorante che ambiva alla Stella con il ruolo di sous chef. Sono rimasto senza parole: come fa un ragazzo di quell’età a ricoprire un ruolo del genere? Cosa gli hanno promesso in quel ristorante? Si è abbassata l'età di chi ricopre un ruolo così importante. Io non avrei potuto farlo diventare sous chef: a me fanno fatica anche persone più grandi di età e con più esperienza. I miei colleghi importanti possono lamentarsi quanto vogliono, ma spesso i colpevoli siamo noi. Non è solo una questione di ragazzi che non vogliono più sacrificarsi. È un discorso più complesso, e noi dobbiamo assumerci una parte della responsabilità. In Spagna, se paghi di meno, fornisci magari l'alloggio o pretendi di meno in termini di orario. E, altro aspetto, non ci sono ragazzi oppure quelli che ci sono non sono molto preparati: ciò significa che c'è un problema nelle scuole, le quali dovrebbero essere più trasparenti verso i ragazzi”.