L’espressione «fa’ on risott», significa in buon milanese fare una gran confusione, mischiare idee o ingredienti come si mescola riso, cipollina trita «e alquanto midollo di manzo», dal suggerimento di Francesco Cherubini, autore di un fondamentale vocabolario milanese-italiano e accorto commentatore di ricette. Oggi il risotto alla milanese, oppure quello “cont la coteleta” sembra desaparecido dalla tavola dei varesini, almeno a vedere la lista dei nuovi ristoranti aperti in città: cinesi, indiani, africani, giapponesi, spezie e sushi, pesce crudo, involtini primavera e inverno buio per “nervitt”, “cassoeula”, “oss büs” e altre specialità della cucina cosiddetta povera, ma genuina.
Un gran risotto, appunto, con la probabile apertura dell’ennesimo ristorante giapponese appena fuori città, zona lago, e la domanda, legittima: «Che ne è o ne sarà delle nostre tradizioni culinarie?». Chissà se ci si potrà ancora sedere sotto una pergola con un bicchiere di quello buono e un assaggio di cervellata, “el salamm di povaritt”, fatto con grasso di maiale e di manzo, carni tritate fini e formaggio Bella Lodi grattuggiato, con una punta di zafferano a dare quel pizzico di esotismo in più.
O magari assaggiare un bel piatto di “büsecca”, il foiolo che un tempo era l’alimento principe delle trattorie sparse per la campagna e dei “trani” cittadini (da cui il detto: milanesi busecconi), che a Varese fino agli anni Sessanta si trovava da un rivendugliolo dalle parti di via Griffi assieme a fette di polenta, come testimonia Eugenio Dell’Ova, una delle memorie storiche locali. Chi scrive ricorda per esempio la trattoria del “Natale”, in via Maspero, dove negli anni Sessanta e Settanta arrivavano fumanti risotti e anguille marinate, carpioni e anche trippa, che oggi in città soltanto due benemeriti preparano ancora il giovedì, come da tradizione: la Polleria De Molli e la Gastronomia del Corso, ma ovviamente soltanto in inverno.
La cucina paga dazio alla globalità, non c’è più una trattoria a pagarla a peso d’oro, e se c’è (ormai “finta vera”) è assai raro che proponga piatti della tradizione lombarda, dal pesce in carpione (Nanni Svampa sosteneva che ormai era il suo fegato a «vess in carpion») al riso e asparagi, al risotto con lo zafferano, ai fegatini fino al pesce persico dorato al burro e all’ormai preistorico risotto con la tinca. E vogliamo parlare del minestròn? Insaporito con il lardo e la còdega, con “gli occhi” d’olio d’oliva che galleggiano sul brodo? Chi lo può fare, ormai, se non qualche nonna?
Cose del passato, come il “pan meìn” con i fiori di sambuco o la “pulenta uncia”, che i giovani non conoscono nemmeno da lontano, infarciti come sono di cibi usa e getta da fast food, tempura, tamagoyaki, onigiri, samosa, bhelpuri e alte piacevolezze esotiche dai nomi da appuntare sul calepino. «Cosa ordini?» «Un okonomiyaki liscio, grazie».
Va bene conoscere altre cucine, ma attenzione alla colonizzazione del gusto, alla cancel culture dell’antipasto, al tè al posto del vino (già mandato a morire da una nota immunologa che considera cancerogeno anche mezzo bicchiere a pasto) alla negazione dello stracchino bronzone e del “pan giald”. C’è il pericolo del non ritorno, come avviene per la crisi climatica, addio mia bella addio che la mortadella se ne va, assieme all’acqua di tutto cedro e alla salsa grattacù.
Dobbiamo salvare il salvabile, come si fa con le razze autoctone di maiali, capre e mucche, e avere la forza di andare contro tendenza, aprendo qualche trattoria in più, non da stelle Michelin ma da “resgiora” in cucina, prezzi modici e frittelle, bolliti misti e mostarde, coniglio in umido col vino e, perché no, i famigerati “bruscitt” che paiono l’unico piatto tipico varesotto assieme al più tardo e fighetto Dolce Varese.
Viene in mente il geniale Aldo Buzzi e il suo elogio al riso e latte, «un dolce che si mangia tiepido o freddo: rifrescante e leggero», o al rivoluzionario gorgonzola col vinsanto, ma chi scrive si accontenterebbe di un paio di uova al burro da gustare con gli asparagi e una grattata di grana padano. E dopo, due tiri di bocce per digerire.