Il recente riconoscimento della cucina italiana come patrimonio immateriale UNESCO ha generato un’ondata di entusiasmo, comprensibile, ma in molti casi sorprendentemente improvvisa. Sono stato letteralmente sommerso da comunicati stampa di celebrazione, spesso provenienti da realtà che fino a poche settimane fa ignoravano l’esistenza stessa della candidatura, del dossier e del lungo processo di valutazione. Ancora una volta, “salire sul carro del vincitore” si rivela una disciplina olimpica nella quale siamo campioni dichiarati.
Ma proprio per questo varrebbe la pena fermarsi un istante e chiedersi: di quale riconoscimento stiamo parlando davvero? Perché l’UNESCO non premia un piatto, né un marchio, né un comparto commerciale. Non certifica “il migliore” né concede medaglie gastronomiche.
Il riconoscimento riguarda la cultura del cibo, le sue pratiche sociali, i saperi condivisi, la trasmissione intergenerazionale, i valori comunitari che legano la cucina al territorio, alla famiglia, al gesto quotidiano. Non è un premio all’estetica del piatto, ma alla sua umanità.
Per questo, più che esultare per appartenenza o opportunità, sarebbe utile leggere con attenzione le motivazioni UNESCO: ci ricordano che la forza della cucina italiana non sta nelle celebrazioni improvvisate, ma nella sua capacità di essere identità, relazione, memoria e futuro, molto prima che business.
La vera sfida, ora, non è applaudirsi addosso: è essere all’altezza del riconoscimento.


Claudio Porchia



