Vini | 23 dicembre 2025

Carema, il Nebbiolo scolpito nella roccia

Tra morene glaciali, pilastri di pietra e fatica dei viticoltori che portano l’uva “dalla gerla al calice” scopriamo una delle DOC più piccole d’Italia, dove il Nebbiolo racconta la forza di un territorio unico.

Situata nella punta estrema della provincia di Torino, Carema è una piccola conca che guarda la Valle di Gressoney e si allunga fino alla frazione di Airale, nel comune omonimo. Qui si trova un piccolo mondo di vigne aggrappate alla roccia, incastonato tra Piemonte e Valle d’Aosta, in una zona scolpita dai ghiacciai. La Val di Carema mostra le tracce dell’enorme ghiacciaio che ha modellato la valle senza però formare un lago, come avvenuto in altri scenari alpini come, per esempio, il Lago di Garda.

Qui finisce l’Appennino e inizia la dorsale morenica, sotto la quale corrono i celebri balmetti, cavità naturali da cui soffia aria fresca sotterranea. È un territorio di confine, ultima DOC piemontese prima della Valle d’Aosta, luogo di passaggio e di ristoro, che già nel secolo scorso contava il fiorire di numerosi ristoranti lungo la via verso le Alpi. Oggi la zona attira migliaia di turisti stranieri appassionati di terroir, di sport montani, di arrampicata sportiva e di natura: un nuovo pubblico appassionato e pronto ad incontrare anche un vino che, come il Carema, sa parlare di autenticità e resistenza.

La vite si aggrappa alla montagna e cresce tra muri a secco e pergole di pietra. Qui la viticoltura è davvero fatica: ogni pianta richiede cura, forza e pazienza, ed i vigneti si arrampicano sui terrazzamenti, dove il lavoro è ancora tutto fatto a mano. Ogni grappolo è una piccola conquista strappata alla roccia. È un paesaggio di fatica e bellezza in uno spazio modesto ove la DOC copre appena 22 ettari, e la Cantina dei Produttori Nebbiolo di Carema ne raccoglie la parte maggiore, circa 15 ettari; il resto è affidato a piccoli viticoltori che lavorano appezzamenti minuscoli, anche da 1000 metri quadrati. Negli anni Cinquanta i vigneti arrivavano a coprire fino a 100 ettari, compresi boschi e pendii meno vocati: oggi resistono solo le parcelle meglio esposte, più difficili da raggiungere e lavorare, ma capaci di regalare i frutti più pregiati. È una viticoltura che fino a pochi decenni fa si spingeva a coprire addirittura le strade carrozzabili con pergole sospese, tanto era vitale sfruttare ogni spazio.

L’allevamento tradizionale è sempre la pergola, in piemontese chiamata “topia”, sorretta dai celebri pilun: tronchi di pietra e calce che assolvono a più funzioni. Servono da sostegno alla vite, riutilizzano in modo intelligente le pietre tolte alla montagna, e soprattutto regolano la temperatura. Come? Accumulando il calore di giorno e rilasciandolo di notte, proteggendo i grappoli dalle gelate. Sono elementi identitari, che danno forma al paesaggio e raccontano la fatica di chi ha strappato la vigna alla roccia. Ancora oggi i muri a secco, composti da pietre enormi posate a mano, sostengono i terrazzamenti e trattengono la montagna da smottamenti e frane. Anche la terra stessa che oggi sostiene le vigne è frutto di un lavoro comunitario: veniva portata su nelle gerle dalle donne, mentre gli uomini erano emigrati per lavoro in Francia e Svizzera. Per questo si può dire che Carema ha un’anima femminile, fatta di resistenza e cura quotidiana.

Tuttora il lavoro dei produttori è quasi interamente manuale. Nelle parti basse delle coltivazioni si riesce a impiegare qualche piccolo mezzo agricolo, ma per lo più si sale a piedi, con atomizzatori a spalla e trincia manuali. Vendemmiare è davvero un’impresa fisica, perciò si selezionano i grappoli tre volte, trattenendo quelli destinati all’invecchiamento del Carema DOC, quelli per un vino da tavola e, talvolta, si trattiene una parte della massa per la grappa.

Negli ultimi anni, accanto alla storica cooperativa, nuove generazioni hanno avviato reimpianti e lanciato etichette personali facenti parte di piccole produzioni che contribuiscono a mantenere vivo il territorio e offrono prospettive di rinascita. Dove è possibile, qualcuno ha scelto filare a spalliera con allevamento a Guyot che consente di ottenere grappoli più colorati e sani; tuttavia, la pergola rimane imbattibile nel costituire e preservare i profumi primari una volta versati nel calice. In questo ambiente vivono anche delle meravigliose piante storiche, alcune con oltre sessant’anni di vita, che regalano risultati sorprendenti in questo contesto dove il cambiamento climatico attualmente ha inciso poco: infatti l’altitudine e le correnti montane offrono una protezione naturale, mantenendo integro lo stile di un Nebbiolo alpino unico.

Carema DOC nasce esclusivamente da Nebbiolo, nelle sue antiche varietà locali come Picutener e Prugnet. La zona di produzione è limitata al solo territorio comunale di Carema, un vincolo che custodisce la purezza del legame tra vigneto e paesaggio. Riconosciuta come DOC nel 1967, Carema rappresenta un simbolo di resistenza viticola e culturale, un piccolo presidio di biodiversità e memoria contadina.

Il Carema DOC 2021, in particolare, porta nel bicchiere tutte queste storie, presentandosi con un colore granato trasparente e luminoso; al naso richiama la viola appassita, piccoli frutti rossi, cenni di spezie e sfumature balsamiche. In bocca è fresco, verticale, con tannini sottili e un finale elegante che allunga il sorso. È un vino che sa parlare da solo, ma invita anche a scoprire il luogo da cui nasce: una montagna terrazzata, fatta di pilun, topie e fatica, dove ogni calice diventa un pezzo di paesaggio o di un mosaico naturale perfetto dove ogni tessera è costituita da giovani vignaioli decisi a scommettere sulla loro identità territoriale e a firmare etichette personali che sono dei capolavori.

                                                                                                                           

  Fulvio Tonello